Lei conosce Arpad Weisz?

Martedì 17 gennaio 2023
Sala Guido Fanti sede dell’Assemblea Legislativa Emilia-Romagna
Reading tratto dal libro “Dallo scudetto ad Auschwitz”, di Matteo Marani
con Consuelo Battiston e Leonardo Bianconi, per la regia di Gianni Farina
a cura della compagnia Menoventi – prodotto da E-production – organizzato dall’associazione culturale narrandoBO


Per la GIORNATA DELLA MEMORIA, la Regione Emilia-Romagna ha organizzato un evento molto toccante con una storia a me, e credo a molti,  sconosciuta. E’ la storia di Arpad Weisz, uno dei grandi personaggi sportivi degli anni 30. Weisz era un calciatore e poi allenatore, Ebreo-Ungherese che con l’Ambrosiana-(Inter) ha vinto il primo scudetto della Serie A (a girone unico) e altri 2 titoli nazionali col grande Bologna. Sempre con il Bologna ha vinto il Trofeo delle Esposizioni (la Champions League dell’epoca), conquistato contro i maestri del Chelsea.
Il 26 ottobre 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali, Arpad fu costretto a lasciare la guida del Bologna. A lui e ai suoi famigliari non fu più permesso di vivere in Italia in quanto ebreo. Nel 1939 si rifugiò in Francia  e poi  in Olanda, dove allenò la squadra locale, il DFC. In seguito all’occupazione tedesca dei Paesi Bassi, il 2 agosto 1942, la famiglia Weisz venne arrestata dalla Gestapo e portata nel campo di raccolta di Westerbork. Nel mese di ottobre dello stesso anno i quattro vennero caricati su un treno, destinazione Auschwitz, in Polonia. Dopo tre giorni di viaggio in condizioni inumane, Arpad venne dirottato ai lavori forzati, mentre la moglie Elena e i figli Roberto e Clara raggiunsero Auschwitz-Birkenau, dove vennero subito eliminati in una camera a gas. Arpad Weisz ha resistito fino al 31 gennaio 1944, quando è morto di stenti dopo atroci sofferenze.

Le “VARE” a Caltanissetta

Giovedì Santo (2022)

Le “Vare” sono sedici gruppi statuari che vengono portati in processione la sera del giovedì santo. Quasi tutti i gruppi statuari (ben quindici su sedici) sono opera di Francesco e Vincenzo Biangardi, che le realizzarono durante la seconda metà del XVIII Secolo. L’unica Vara a non essere opera dei due artisti napoletani è quella della Traslazione (la cui realizzazione venne commissionata nel 1853 a Napoli a uno scultore ignoto).
Già dalla prima mattina le vare vengono disposte nelle vie cittadine, usualmente di fronte l’abitazione dei rispettivi proprietari e vengono addobbate con fiori e lumi, mentre le bande contribuiscono a rendere allegra l’atmosfera di preparazione. Con l’arrivo del tramonto, però, il registro della musica cambia di colpo, lasciando spazio alle marce funebri ed ai canti della passione. Le Vare vengono, così, accompagnate verso la Piazza Garibaldi, dove si dispongono circondate da un vero e proprio mare di gente. Verso le ore 21,00, quando tutti gruppi hanno raggiunto la loro posizione, formando un cerchio intorno alla Fontana del Tritone, la processione ha inizio ed il primo gruppo, “La Cena” si mette in marcia.
Durante il tragitto, ogni Vara è quasi scortata da numerose persone: la banda, le congregazioni, i ragazzi che vestiti con un saio bianco recano in mano grossi ceri accesi (i bilannuna), la famiglia che possiede la vara. Molto belli e densi di significato sono i passaggi nella Via Re d’Italia; nel Corso Vittorio Emanuele dove la processione si interrompe per permettere ai processionali ed ai musicisti di mangiare e bere quanto offerto dai proprietari delle vare; nella Via XX Settembre, dove notevole è lo sforzo compiuto per far salire le Vare lungo la ripida salita.
Infine, ormai a notte fonda, le Vare si dispongono nuovamente tutte in Piazza Garibaldi e, dopo la Maschiata atto finale dei giochi pirotecnici, iniziano a diperdersi disordinatamente in ogni direzione per tornare ai luoghi in cui sono custodite, dando luogo alla “Spartenza”.

La guerra e i ricordi di Chernobyl

In questi giorni succedono cose che non avremmo mai voluto vedere… La Guerra e tante persone che ne avrebbero fatto volentieri a meno costrette a fuggire dalle loro case, ad abbandonare gli affetti più cari e a rischiare la vita. Guardo attonito le scene che passano continuamente in televisione e considero sull’assurdità della guerra che costringe popoli vicini che non avrebbero nessun motivo per scontrarsi costretti a sentirsi nemici quando per tanti anni si è stati lo “stesso popolo”. Ho conosciuto questa gente un decennio fa quando ho partecipato al Progetto di accoglienza dei bambini colpiti dalle radiazioni di Chernobyl. Le radiazioni non hanno riconosciuto i confini… la centrale nucleare era in Ucraina ma ha colpito gravemente anche la Bielorussia e tanti paesi europei. Guardo per televisione le facce dei bambini che vengono in Europa e in Italia dalle zone dove c’è la guerra e mi sembra di rivedere gli stessi bambini che per tanti anni sono venuti da noi dalla Bielorussia. Venivano pieni di entusiasmo e desiderosi di conoscere un mondo diverso e sperare in un mondo migliore. La nostra speranza era sì di aiutarli dal lato sanitario ma anche quella di trasmettere loro dei principi che li avrebbero aiutati nel prosieguo della loro vita. Denis, uno dei bambini che abbiamo ospitato in quegli anni, si era legato molto alla nostra famiglia e a volte scherzando declamava i nomi dei componenti della famiglia ai quali aggiungeva il suo e anche quello della sua mamma!
Sono stato in Bielorussia diverse volte e i villaggi che visitavamo erano a pochi chilometri dal confine con l’Ucraina e probabilmente ai tempi dell’Unione Sovietica il confine era praticamente inesistente. Le persone si frequentavano, lavoravano insieme, intrecciavano dei rapporti sentimentali, si sposavano e vivevano insieme. Allora perché la guerra?
Alcune delle risposte sono: L’Ucraina vuole entrare nella Nato e la Russia non può accettarlo! La Russia considera parte dei territori dell’Ucraina come territori che dovrebbero appartenere alla Russia! L’Ucraina vorrebbe entrare in Europa! Putin vuole dimostrare la potenza della Russia… e altro ancora.
Intanto la gente muore o nella migliore delle ipotesi e costretta ad abbandonare la propria casa e scappare lontana verso un avvenire che sarà sempre più incerto. E i bambini costretti a vivere un’esperienza che li segnerà per tutta la vita…

Ho fotografato questi due disegni, fatti dai ragazzi, in una scuola della provincia di Gomel. Sono di qualche anno fa ma lo stesso di triste attualità…

Sotto alcune foto di bambini, sono bambini bielorussi ma penso che i loro visi sono gli stessi dei bambini dell’Ucraina…

© Testi e foto di Salvatore Lumia – Riproduzione riservata

VILLALBA, ricordi ed emozioni…

I MIEI RICORDI
Manco da tantissimi anni dal mio paese ed è di gran lunga maggiore il numero degli anni passati lontani, eppure continuamente mi vengono in mente avvenimenti e sensazioni che ho provato nei primi anni della mia infanzia, come se questi anni fossero stati una scuola alla quale fare riferimento per tutta la vita.

Voglio raccontare di una comunità povera e semplice per la maggior parte dedita ad una agricoltura primitiva e poco remunerativa e che presto ha dovuto fare i conti con una emigrazione che ha diviso le famiglie e svuotato il paese; di un paese nel quale si viveva nel ricordo degli anni passati, della mafia, di don Calò, delle bombe al comizio di Girolamo Li Causi, tutte cose passate e che a noi bimbi sembravano quasi un racconto irreale. La mafia, morto don Calò Vizzini (per molti anni capo riconosciuto della mafia in Sicilia), e avendo poca possibilità di sfruttamento si era spostata altrove e il paese viveva in una monotona tranquillità che raramente veniva turbata da qualche incidente sul lavoro o qualche morte prematura.

A volte capitava anche che due ragazzi innamorati se ne scappavano (fuivano) sia per superare l’avversione delle famiglie al loro matrimonio che per affrettare la data delle nozze. Per la verità a volte scappavano, d’accordo con le famiglie, per risparmiare le spese della cerimonia nuziale. In ogni caso al mattino quando i genitori soprattutto della ragazza scoprivano la sua assenza cominciavano a urlare e a disperarsi, perché i vicini sentissero, a ingiuriare i ragazzi e giurare che con loro avevano chiuso e che non avrebbero più messo piede nelle loro case. La notizia della “fuga” faceva presto il giro del paese e subito cominciavano i pettegolezzi. Dopo pochi giorni i ragazzi tornavano a casa e dopo la riappacificazione con i genitori si celebrava un matrimonio un po’ sottotono, i ragazzi mettevano su casa e tutto tornava come prima.

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Sino agli anni ’60 gli uomini lavoravano la terra con metodi ed attrezzatura ancora arcaici. Tutti i lavori dall’aratura alla semina, dalla mietitura alla trebbiatura erano manuali. Si lamentavano sempre, i contadini, per il duro lavoro e per lo scarso raccolto. Ascoltavano con invidia i racconti degli emigranti che parlavano di paga settimanale o mensile, di cottimo, di lavoro stando a sedere (che sembrava voler dire non lavoro) e in molti nasceva la voglia di piantare tutto e di andare via in cerca di miglior fortuna.

Anche noi ragazzi, che dividevamo la nostra giornata tra la scuola e i giochi in giro per il paese e che a volte, soprattutto durante le vacanze, andavamo a “dare una mano” in campagna, sognavamo il nostro futuro lontano dal paese, al nord o all’estero, pensavamo ad un impiego in una grande fabbrica, alla macchina, allo stipendio sicuro tutti i mesi, alla vita piena di comodità e di divertimenti. Ognuno di noi aveva uno zio, un amico o un conoscente da qualche parte, in “continente”. Moltissimi erano in Liguria – ad Albenga – lavoravano come muratori o come camerieri, altri nel Bresciano, a Lumezzane, lavoravano in fabbriche o officine dove si producevano articoli in acciaio inossidabile e dove molti lavorando a cottimo, magari non in regola, in officine insalubri, si sentivano fortunati perché più pezzi facevano e più soldi guadagnavano.

Mi ricordo che quando venivano in paese portavano cucchiai, grattuggie, pentole e altre cose in acciaio e le donne, abituate ad usare le stoviglie in rame o in alluminio, si stupivano nel vedere queste cose lucide che “non si rovinavano mai e che dopo lavate tornavano come nuove”.

Intanto il paese si svuotava, famiglie intere emigravano, molti giovani andavano via e in paese rimanevano gli anziani e alcune famiglie che per un motivo o per l’altro avevano deciso di continuare a vivere con l’agricoltura e adesso avevano la possibilità di ingrandire la loro proprietà acquistando le terre a prezzi vantaggiosi. 

Spesso arrivavano in paese dei venditori ambulanti.
Arrivavano in genere con un carretto, con le prime macchine o i camioncini a vendere ogni genere di mercanzia, dalla frutta alle patate, dalle cose per la casa alle stoffe, ai corredi e all’abbigliamento. Tutti avevano un urlo incomprensibile ma inconfondibile. Le donne si avvicinavano alla macchina stracarica di ogni mercanzia e dopo aver scelto la cosa che loro interessava cominciavano a contrattare sul prezzo. La contrattazione era lunga e laboriosa anche su prodotti di prezzo modesto ed era una scena tutta da vedere con continui tira e molla e minacce da parte delle donne di non acquistare niente finché non si raggiungeva un compromesso che desse all’acquirente l’illusione di aver fatto un affare e di aver spuntato il prezzo migliore.
Alcuni venditori, soprattutto quelli di frutta e patate, oltre il pagamento in soldi, proponevano lo scambio della frutta con il grano o le fave e questo invogliava molto di più le donne perché di soldi nelle case c’è n’erano pochi e invece del grano o un po’ di fave si riusciva a rimediarle.

LA VITA IN PAESE
In paese vi erano pochi negozi che vendevano un po’ di tutto dai generi alimentari alle pastiglie per il mal di testa. Mi ricordo che oltre i soldi accettavano come pagamento anche le uova che poi rivendevano a prezzo maggiorato. Capitava che, mia madre, quando avevo bisogno di un quaderno o delle matite, mi dava un uovo che io barattavo con quello di cui avevo bisogno.

Altri personaggi di tanto in tanto spuntavano in paese… 
Arrivava lo stagnino (“lu quadararu”) che stagnava e riparava le pentole di rame e aveva fama di essere abbastanza sfortunato perché si diceva in paese che tutte le volte che lui arrivava pioveva e il suo lavoro, che si svolgeva all’aperto, diventava più complicato. Era diventato un modo di dire (“la fortuna di lu quadararu”) per indicare una persona per nulla fortunata.
Artigiani di mestieri ormai scomparsi e che al solo pensiero che siano esistiti fanno sorridere erano quelli che aggiustavano gli ombrelli (“lu paraccaru”) e quelli che incollavano le brocche di terracotta, le giare e addirittura i piatti rotti e li cucivano con il fil di ferro come raccontato tanto bene da Pirandello nella “Giara”.

L’attività principale del paese era l’agricoltura e le colture principali erano il grano duro e, ad anni alterni, fave o lenticchie.

Il territorio era diviso in tanti appezzamenti più o meno piccoli e quindi ogni contadino aveva diversi appezzamenti dislocati in vari punti del territorio, alcuni dei quali anche molto lontano dal paese. Questo obbligava la gente a lunghi spostamenti al mattino molto presto, per lo più a cavallo di muli o a piedi.
Mio padre lavorava la terra e quando c’erano le vacanze a scuola mi portava con sè affinchè, anche se piccolo, potessi dargli una mano. Così presto mi sono abituato a fare i lavori nei campi.
In ottobre si arava la terra con un aratro tirato da due muli. In seguito si iniziava la semina e qualche volta sono andato con mio padre per “buttare le sementi”. Lui stava avanti con i muli che tiravano l’aratro ed io dietro portando una borsa (“coffa”) piena di semi che lasciavo cadere uniformemente all’interno dei solchi.
Il grano si seminava in tutti i solchi quindi ad ogni virata l’aratro chiudeva il solco precedente e ne apriva un altro. I legumi invece si seminavano un solco si e uno no. A volte esageravo nel buttare i semi e allora si correva il rischio di finirli prima della fine della giornata.
Il lavoro era faticoso perché oltre a dover portare la “coffa” con le sementi, quando la terra era un po’ umida si appesantivano gli scarponi e questo rendeva ancora più difficoltoso il camminare.

Per cucinare si usava una cucina costruita in muratura nella quale per alimentare il fuoco si metteva la paglia soprattutto di legumi. In molte case era presente una cucina a gas che però veniva usata per bollire il latte, per friggere le uova e per cotture brevi.

Cominciando presto al mattino, dopo un po’ ci si fermava a fare colazione che in genere era composta di pane, formaggio, olive, frittate e più raramente mortadella, scatolame e poc’altro.
Anche il pranzo più o meno aveva gli stessi ingredienti e in ogni caso si mangiavano sempre delle cose fredde e asciutte e questo rendeva molto più faticoso il lavoro nei campi.
Mio padre diceva sempre che se ci fosse stata la possibilità di mangiare un piatto di pasta o qualcosa di caldo la fatica si sarebbe dimezzata. Spesso mi raccontava di quando lui era piccolo e andava in campagna con suo fratello; siccome avevano sempre molta fame al mattino si dividevano il pane cosicché ognuno se lo gestiva come voleva e – ricordava ancora – nel periodo che c’erano le fave verdi cominciavano a mangiarle per riem­pirsi lo stomaco e far durare il pane il più a lungo possibile. Quindi nonostante tutto adesso ci si poteva considerare fortunati.
Qualcosa di caldo si mangiava la sera a casa, ma anche in questo caso il pasto era composto da minestra, molte volte di verdure e molto abbondante, e poco secondo per lo più verdure rifatte in frittata o patate.
La carne si mangiava poche volte e soprattutto la domenica. Mia madre mi mandava dal macellaio a comprare “tri unzi” (250 g) di carne, di maiale o di castrato, che poi cucinava al sugo insieme con le patate; con il sugo condivamo la pasta e poi ci dividevamo come pietanza la poca carne e le patate. A volte mangiavamo il baccalà fritto o le sarde anche queste fritte. Nella pescheria del paese arrivavano solo sarde, paganelli, seppie e poche altre qualità di pesce.
Un pasto importante per tutti, ma soprattutto per noi bambini, era la colazione a base di latte e orzo in grandi tazzoni dove spezzettavamo tanto pane. Il latte era molto buono: in genere mio padre teneva una capra e tutte le mattine la mungeva e quindi avevamo il latte fresco. Solo in certi periodi che la nostra capra non aveva latte lo compravamo, ma anche in questo caso passava il capraio che lo mungeva su ordinazione.
In genere, oltre ad avere una capra, tenevamo anche una pecora, cosicché con il latte di capra che non mangiavamo e il latte della pecora mia madre faceva il formaggio. Quando si faceva il formaggio c’era la possibilità di variare la colazione con la “ricuttedda” che era ricotta con il siero caldo nel quale si metteva il pane. Mi ricordo anche il buonissimo sapore del formaggio appena tirato dal siero (la “tuma”) che mia madre mi allungava e che divoravo subito.
La mamma faceva delle formine di formaggio sui sette-otto etti e che dopo stagionate venivano messe in una giara di terracotta e servivano sia come companatico che da grattuggiare sulla pasta.
Inoltre dalla pecora e dalla capra nascevano agnelli e capretti che però, soprattutto quando eravamo più poveri, mio padre vendeva e a noi non restava che la testa, la coratella e le budelline per fare le “stigliuleddi”.
Un’altra cosa molto presente come companatico erano le olive verdi o nere che venivano preparate durante la stagione della raccolta e poi tenute sotto sale le nere e in salamoia le verdi in vasi di terracotta. Una parte delle olive verdi veniva schiacciate e messe in salamoia, con spicchi d’aglio e altri odori, perché fossero pronte presto per essere mangiate.
A volte quando d’inverno pioveva o nevicava mio padre, non potendo andare in campagna, si alzava e cucinava delle fave o dei ceci neri che mangiavamo, conditi con olio e inzuppandoci del pane, anche a colazione.
Naturalmente capitava spesso che quando si cucinava qualcosa la si mangiava più volte consecutivamente.
Un legume prodotto a Villalba e molto rinomato erano le lenticchie che si mangiavano assieme a tagliolini fatti in casa con farina di grano duro, oppure condite con olio come pietanza.

Ogni contadino al momento della raccolta vendeva il grano prodotto ma teneva indietro quello che presumeva gli sarebbe servito per la semina dell’anno successivo e per i bisogni della sua famiglia. Questo era considerato un bel risultato perché garantiva il pane per la famiglia.
Periodicamente il grano veniva portato in quantità di 30-40 kg. al mulino per essere macinato. La farina veniva tenuta in un fusto di legno col coperchio e quando si doveva fare il pane se ne setacciava un po’ per togliere la crusca (“caniglia”) e quindi si impastava, si faceva il pane e si portava al forno per cuocerlo. Al fornaio veniva pagato qualcosa per ogni pane infornato.
Mia madre faceva il pane d’inverno una volta la settimana e d’estate due volte. Faceva delle pagnotte di 2 kg. circa l’una e sopra ci metteva tanti semi di papavero. Appena sfornato il pane era buonissimo e spesso lo mangiavamo condito con olio, sale e pepe.
I miei genitori ci avevano abituati ad avere un grande rispetto per il pane e di considerarlo cone un dono di Dio e quindi non andava assolutamente sprecato e, anche quando era duro e si faceva fatica a mangiarlo, lo si usava per metterlo nel latte o nel brodo delle verdure cotte.

Dopo questa divagazione sulle abitudini alimentari torniamo ai lavori dei campi. Eravamo arrivati alla semina che avveniva in dicembre.

Bisognava aspettare che il grano e i legumi seminati crescessero un po’ e quindi si zappavano per muovere la terra e per strappare tutte le erbacce. Tanto per cambiare anche questo era un lavoro molto faticoso perché bisognava stare sempre con la schiena curva e fare attenzione con la zappa a strappare solo l’erba e non anche il grano.
Intanto passavano i mesi e arrivava la primavera. La campagna cambiava colore e il grano e i legumi cominciavano a maturare.
Quando si seccavano le fave e le lenticchie venivano strappate con le radici e messe in fasci a seccare. In seguito si “pisavano” con lo stesso sistema usato per il grano.

Poi arrivava il momento della mietitura del grano che veniva fatto a mano con la falce ed era un lavoro molto impegnativo e faticoso, sia perché si lavorava dall’alba al tramonto, e in giugno le ore di luce sono tante, sia perché il caldo a volte afoso raddoppiava la fatica. A complicare le cose, a volte, veniva a piovere poco prima della mietitura così il grano si sdraiava per terra e questo rendeva ancora più difficoltosa la mietitura.
Comunque era una cosa che si faceva con entusiasmo, soprattutto quando si vedeva che il grano era bello e che il raccolto sarebbe stato abbondante.
Siccome il periodo della mietitura era breve e c’era bisogno di manodopera dall’agrigentino, in particolare dalla zona di Palma di Montechiaro, arrivavano “i mietitori” (contadini che avendo le terre nelle zone vicino al mare avevano già mietuto il loro grano e venivano qui per guadagnare qualcosa), si accampavano in piazza e, con la falce a portata di mano, aspettavano che qualcuno li assumesse.
La sera, i contadini andavano i piazza, assumevano quelli di cui avevano bisogno, scegliendo naturalmente i più giovani e quelli che avevano l’aspetto più robusto, li portavano a casa loro e li facevano dormire fuori di casa in giacigli di fortuna pronti per partire per il luogo di lavoro quand’era ancora buio, perché bisognava essere sul posto appena albeggiava.
Anche mio padre assumeva quelli di cui aveva bisogno, anzi con qualcuno aveva instaurato un rapporto di stima reciproca e lo aspettava anche negli anni successivi.
I mietitori cominciavano a tagliare il grano con la falce, se lo appoggiavano sul braccio che teneva la falce e quando ne avevano fatto un bel mazzo lo legavano sempre con un pugno di spighe e lo poggiavano a terra. Più tardi, uno di loro, con una attrezzatura rudimentale che lo aiutava a prendere i vari mazzi di spighe si sarebbe messo a confezionare dei fasci che si chiamavano “gregni” e che contenevano una diecina di mazzi.
Gli uomini erano molto veloci nell’eseguire le varie operazioni della mietitura e il tutto avveniva in modo armonico, stavano tutti in fila e ognuno mietendo un paio di filari procedeva di pari passo con gli altri.
Durante la mietitura, no­nostante l’arsura che la fatica e il caldo provocavano, molti cantavano stornelli o canzoni allegre e chiedevano da bere a volte acqua ma più spesso anche vino. Il mio incarico, quand’ero piccolo, era quello di passare con il “da bere”. L’acqua e il vino si tenevano in brocche di terracotta diverse fra loro; “la quartara” per l’acqua e “lu fiascu” per il vino, si cercava di tenerli all’ombra, magari mettendoci sopra qualcosa di bagnato, perché stessero più freschi possibile. 
In questa occasione, anche il mangiare era un po’ più abbondante e a volte, prima di mezzogiorno, andavo in paese per prendere le polpette o dell’altra carne che mia madre aveva preparato e che portavo ancora calde dentro una pentola. Ci si fermava a mangiare, a volte sotto il sole, e si stava fermi lo stretto indispensabile perché bisognava in fretta tornare a mietere e al pomeriggio si lavorava quasi fino al tramonto per poi tornare in paese facendo magari 5 o 6 chilometri a piedi.
La mietitura durava alcune settimane e non si stava fermi neanche la domenica. 

Ultimata la mietitura era già tempo di “pisare”, cioè di trebbiare il grano. Anche questa, prima dell’avvento delle trebbiatrici, si faceva con metodi antichi, sempre gli stessi da secoli.
Il primo giorno bisognava preparare “l’aria”. Era uno spiazzo pianeggiante dove strappavamo tutte le stoppie e le erbacce, poi bagnavamo la terra con l’acqua, ci spargevamo della paglia e la schiacciavamo in modo che impastandosi con la terra formasse una specie di pavimento. Preparavamo la “straula”, un carro senza ruote, che sarebbe servito per portare il grano all’interno dell’aia.
L’indomani mattina di buon’ora – perché il grano era meglio trasportarlo quando non era ancora molto caldo – trasportavamo il grano all’interno dell’aia fino a riempirla.
A questo punto cominciava “la pisata”.
Mio padre prendeva i muli, andava al centro dell’aia e incitandoli, li faceva girare in modo che cominciassero a schiacciare le spighe. I muli correvano e mio padre ogni tanto li frustava perché andassero ancora più forte. Ai bordi dell’aia ci voleva qualcuno che avvicinasse con un tridente le spighe che venivano fuori. All’inizio quando il mucchio era grande si faceva parecchia fatica ma man mano che le spighe venivano pestate diventava più semplice.
Dopo un po’ mio padre si fermava, portava fuori i muli e cominciavamo a rigirare il grano in modo che la parte pestata finisse sotto e quella ancora da pestare andasse sopra, quindi rientrava nell’aia e riprendeva ad incitare i muli. Verso la fine della “pisata” cominciava a cantare “la ladata” un canto che spronava i muli e nello stesso tempo ringraziava il Signore e i Santi per il raccolto.
Finita la “pisata” bisognava “spagliare” cioè separare il grano dalla paglia. Per far questo c’era bisogno del vento che alcune volte faceva i capricci e rendeva il lavoro più difficoltoso e l’attesa che soffiasse snervante. Ci si metteva uno di fianco all’altro con un foulard legato in testa e con il tridente si buttava in aria il grano e la paglia. La paglia più leggera volava ai bordi dell’aia lasciando il grano sempre più pulito.
Nei giorni successivi si ammucchiavano altre spighe nell’aia e si rifacevano le stesse operazioni finché non erano finite le spighe. A questo punto dopo aver spagliato con il tridente bisognava pulire ancora più a fondo il grano e questo si faceva spagliando con un badile di legno (“pala”).
Finita questa operazione il grano era ben pulito, si cominciava a riempire le bisacce, e a trasportarlo a casa.
Si facevano diversi viaggi, con i muli, e le bisacce in genere venivano vuotate in una stanza trasformata in magazzino in attesa di vendere il grano a uno dei commercianti del paese.
Ovviamente per tutto il periodo della “pisata” e del trasporto del grano l’aia non rimaneva mai incustodita, neanche di notte, e spesso mi capitava di rimanere a dormire in campagna, magari in compagnia di mio nonno o di mio padre. Ci preparavamo il letto all’aperto stendendo una bisaccia sul mucchio della paglia, ai bordi dell’aia, coprendoci con un pleid e con una cerata perché di notte la temperatura si abbassava e cadeva la brina.
In questi casi anche la cena la consumavamo sul posto e il menù era sempre il solito (pane e companatico).

Una volta, invece, che assieme a mio nonno eravamo rimasti a custodire l’aia in località “cuazzu di la Cruci”, essendoci nelle vicinanze una fattoria abitata da pastori che conoscevamo andammo a cena da loro e ci prepararono pasta con la ricotta: l’avevano stesa su un asse e tutti mangiavano riempiendo il cucchiaio direttamente dall’asse. Uno dei pastori vedendomi un po’ esitante, si mise a ridere e dicendomi che di solito non usavano piatti ma ne prese uno e me lo riempì di pasta. La pasta era ben condita con ricotta molto buona e dopo cena, con mio nonno, tornammo verso l’aia veramente soddisfatti.

Dopo aver finito di “pesare” il grano nei vari appezzamenti di terra che avevamo e dopo averlo immagazzinato in casa, mio padre metteva da parte quello che ci sarebbe servito per fare il pane e per la semina, il resto lo vendeva.
La vendita del grano, assieme a quella delle lenticchie e delle fave erano praticamente l’unica fonte di guadagno e il ricavato doveva bastare per le necessità della famiglia fino al raccolto dell’anno successivo.

In seguito anche la paglia del grano veniva trasportata, riempiendo due enormi reti di corda (“rituna”) che poi venivano legate ai due lati del mulo, trasportate verso case e immagazzinate nella “paglialora”, servivano d’inverno come foraggio per gli animali.

La paglia dei legumi invece veniva usata per alimentare il fuoco della cucina.


IL PAESE

LA CHIESA

LE SERRE

IN CAMPAGNA

© Testi e foto di Salvatore Lumia – Riproduzione riservata

Robert Capa in mostra a Modena con le sue foto a colori

Devo dire, sinceramente, che sono andato a visitare questa mostra con molto scetticismo. Per molti di noi Capa è un grande fotografo di guerra e alcuni sue foto sono diventate importanti icone. Dopo aver visto la mostra lo scetticismo è rimasto perché l’impressione che ho avuto è che Capa abbia affrontato gli anni del primo dopoguerra con l’atteggiamento di chi scattava le foto perché bisognava pur lavorare… Alcune foto sono belle, documentano il desiderio di tornare alla normalità dopo la seconda guerra mondiale, ci sono dei bellissimi ritratti di bellissime donne ma nulla a che vedere con le foto come la “Morte d’un miliziano” scattata durante la Guerra di Spagna oppure quella che ritrae un contadino siciliano che dà indicazioni a un soldato americano nell’agosto del 1943 dopo lo sbarco degli americani in Sicilia.

Il lockdown

Comincia il 2020 (che gli astrologi ci avevano assicurato essere un anno pieno di cose belle) con tanti progetti e all’improvviso ti trovi chiuso in casa per combattere un nemico invisibile ma molto temuto: il “Covid 19”. Se ne parlava da un po’, in Cina c’erano molti casi ma sembrava che a noi la cosa non interessasse ed invece eccoci chiusi in casa! 
Cosa facciamo, abbiamo tante cose da fare, avevo programmato con alcuni amici un Cammino in Toscana sulla via Francigena, avevamo un paio di viaggi prenotati, ho la campagna da coltivare e invece sto chiuso in casa. Con Gabriella abbiamo cominciato ad organizzarci le giornate, la nostra casa è abbastanza grande ed adesso siamo da soli. Al mattino, soprattutto i primi giorni, pulizie straordinarie poi ginnastica seguendo un video su YouTube e pomeriggio ognuno si dedicava ai suoi hobby. Gabriella preparava il pane con il lievito madre, tanti dolci e piatti appetitosi. Bisognava stare attenti a non esagerare. Certe volte andavo a camminare o corricchiare in cortile (250 mt circa). Sono riuscito a fare 6 km. Nel frattempo mi sono ricordato delle mie diapositive, frutto di tanti anni di fotografia analogica e allora ho cominciato a scansionarle per averle in digitale. Lo scanner funzionava tutto il giorno, ogni tanto mettevo delle nuove diapositive e andavo avanti (alla fine ho scansionato circa 3000 immagini). La cosa bella è che ogni tanto venivano fuori foto che non vedevamo da tanto… Foto di quando eravamo giovani, foto della famiglia, dei bambini, delle tante vacanze fatte insieme, dei momenti felici, delle persone care che non ci sono più. Tornavamo a rivivere con la mente le emozioni di quei momenti e tanti episodi o aneddoti che le immagini fanno tornare alla mente. Ogni giorno mandavo, con WhatsApp, ai figli o ai miei fratelli le foto che mi sembravano più interessanti e anche con loro rivivevamo i ricordi. Le videochiamate con i figli ce li facevano sentire meno lontani! Ogni tanto mi mettevo a scattare delle foto in casa, facevo degli esperimenti, mischiavo olio, acqua, detersivo colorato e scattavo delle foto… facevo cadere delle gocce di acqua sulle piante in terrazza e scattavo delle foto ravvicinate, poi le ritoccavo ed elaboravo al computer. Le giornate passavano senza che ci annoiassimo. La sera solitamente guardavamo un film. Abbiamo letto diversi libri. I notiziari (che sembravano bollettini di guerra) li ascoltavamo ma senza esagerare, rifuggivamo dai dibattiti dove si dicevano più o meno sempre le stesse cose. Avevamo scoperto la possibilità di farsi consegnare la spesa a domicilio. Col passare delle settimane ho cominciato ad avere nostalgia della campagna, pensavo a tutte le cose che avevo seminato e che avrebbero avuto bisogno di cura. La campagna era di mio padre che l’aveva comprato quand’era andato in pensione. Adesso, da pensionato, ci vado io. E’ una valvola di sfogo ma anche la possibilità di avere sulla tavola dei prodotti genuini. La prima volta che ci sono andato ho avuto la bella sorpresa di trovare tante cose. L’orto anche senza le mie cure mi ha fatto trovare insalata, cicoria, bietole, fave… Ho raccolto un po’ di cose e sono tornato a casa orgoglioso. Forse si ricominciava a tornare alla vita normale!

ESPERIMENTI FOTOGRAFICI DURANTE IL LOCKDOWN

Foto e racconti a Quattro Mani

Finalmente è uscito il libro «Foto e racconti a quattro mani»!

E’ un libro che ha bisogno di essere sfogliato, direi annusato. In questo caso non ci sono PDF, Epub, ecc. Bisogna sfogliarlo. La carta usata (patinata opaca da 200 grammi) a mio parere fa risaltare i testi e le foto e da corpo al volumetto.

Voglio raccontare le mie sensazioni e le mie emozioni quando Maria Grazia ha cominciato a scrivere il primo racconto-commento sotto una mia foto su facebook. 
Mi è piaciuto molto ed è lì che è scattata la scintilla. 
Mi è piaciuto il taglio che ha voluto dare ai racconti e l’idea che sia stata Lei a scegliere le foto da commentare senza che io provassi mai a influenzarla nella scelta di un’immagine. 
Maria Grazia è un’artista, il suo curriculum e la sua produzione sono incredibili. Il fatto che abbia deciso di scrivere sulle mie fotografie mi riempiva d’orgoglio. 
C’è voluto del tempo perché tutto era legato all’ispirazione che le stesse le procuravano. 
Era bello ogni tanto trovare sotto una foto un commento che io provvedevo subito a conservare insieme alla fotografia e da lì cominciava l’attesa per la prossima che a volte arrivava presto e altre volte si faceva aspettare magari più di una settimana.
I racconti sono tutti molto belli e soprattutto sono racconti che prendono spunto dalla fotografia ma poi costruiscono una storia, sempre creativa e fantasiosa. 
È la caratteristica della fotografia ed è la fotografia che più amo quella che ispira le storie…
Non ho ancora avuto il piacere di conoscere di persona Maria Grazia eppure mi sento legato a lei da amicizia sincera. Sarà la sicilianità che ci accomuna, sarà il suo carattere schivo e rispettoso, sarà infine la sua arte, la pittura, l’attività da sommelier, la scrittura, la fotografia che la rendono una persona affascinante!
Voglio infine ringraziare Teresa Di Fresco per la bella «Prefazione».

Salvatore Lumia

Per informazioni scrivetemi alla mail slumia51@gmail.com

La zia Liboria e il dipinto su vetro

La zia Liboria era una sorella di mio nonno. Da bambina aveva avuto la poliomelite ed era paralizzata da entrambe le gambe. Eppure, per molti anni, ha vissuto da sola e riusciva nonostante tutto ad essere autosufficiente. La sua casa era composta (come tante a quei tempi) da un unico locale con un soffitto a volta e, di fronte all’entrata, un’altra volta più bassa (alcova) dove c’era il letto. Si muoveva per casa facendo dondolare, con le braccia, una sedia abbassata in modo da poter toccare a terra con le gambe. Era una persona splendida, con due occhi vispi e un’intelligenza vivace. Tutti i nipoti e pronipoti eravamo legati a lei e frequentavamo la sua casa che in certi momenti si trasformava in un circolo di conversazione, di lettura o, ancor meglio, di pettegolezzo. Era molto curiosa, si interessava alle cose di tutti, agli innamoramenti e alle storie d’amore che a volte favoriva e agevolava. Viveva dell’aiuto dei fratelli, tra cui uno che viveva negli Stati Uniti, e che gli mandava periodicamente stoffe, abbigliamento e biancheria che lei riusciva a vendere ricavandone qualcosa. Aveva anche un piccolo podere che dava in affitto e anche questo gli procurava un utile che seppure modesto l’aiutava a vivere in modo dignitoso. La pensione e i sussidi per gli handicappati non arrivavano mai anche se ne avrebbe avuto tutti i diritti. Quando gli diedero una piccola pensione rimase riconoscente ad un onorevole siciliano (come se gli avesse fatto un piacere personale) che si era interessato al suo caso. Era già quasi anziana quando gli hanno assegnato una sedia a rotelle che non ha mai usato perché non ne era capace e preferiva continuare ad usare la sua sedia…
Era credente e, sulle pareti di casa, erano attaccati dei quadri, per lo più stampe, con raffigurazioni religiose.
Ce n’era uno diverso, a cui era molto legata, ed era un dipinto su vetro che raffigurava una Madonna. A noi sembrava molto bello, e probabilmente aveva qualche valore, visto che un giorno uno di quei personaggi che, proveniente dalla città, girava per le povere case alla ricerca di cose di valore da acquistare a cifre modeste.
Così il personaggio convinse la zia a vendergli il quadro. La zia Liboria anche se con il cuore pieno di dispiacere accettò la cifra e gli consegnò il dipinto. Solo, pochi istanti dopo, quando vide la parete vuota e l’uomo uscire con sottobraccio il quadro fu presa dal rimorso, cominciò a disperarsi e chiese ad un vicino di casa di correre dietro all’uomo e farsi riconsegnare il quadro contenta di restituirgli la cifra appena ricevuta per la compravendita. Fortunatamente l’uomo non fece resistenza e il quadro tornò al suo posto.

La storia del quadro mi è tornata in mente qualche anno fa quando a Palermo, in un museo, ne ho visto uno simile (che in questo caso però rappresenta Santa Rosalia) che ho fotografato e che pubblico a corredo di questo breve scritto.

La magia dei libri

UNA VITA CON I LIBRI, UNA VITA PER I LIBRI…

Ho sempre avuto voglia di leggere e da bambino ero un lettore vorace! Ero certamente facilitato dal fatto che nel mio paesino nel centro della Sicilia le distrazioni e le occasioni di svago erano poche. Sì è vero si stava molto per strada e si giocava in giro per il paese con gli amici ma la lettura era un’altra cosa! Leggere ti dava la possibilità di «conoscere», di viaggiare e di fantasticare! Leggevo di tutto e naturalmente molti giornalini a fumetti (Blek Macigno, Capitan Mick, Tex, Il Piccolo Ranger, Topolino, Zagor, ecc.). Leggevo anche libri che prendevo in prestito alla Biblioteca Comunale anzi per un po’ sono stato così assiduo frequentatore della biblioteca da diventare aiutante volontario della bibliotecaria! Andavo in biblioteca tutte le sere e conoscevo tutti i libri e la loro posizione all’interno degli scaffali. Avrei potuto continuare gli studi e sicuramente sarebbero stati letterari ma finito le medie mio padre mi ha detto che non avevamo le possibilità economiche per questo e così ho smesso di studiare e sono andato ad aiutarlo in campagna! Dopo un anno e visto che non mi rassegnavo, ho avuto la possibilità di frequentare una scuola professionale presso i Salesiani a Catania. Quando mi è stato chiesto che specializzazione volessi prendere non ho esitato ed ho esclamato: «Il linotipista»! Non sapevo bene cosa fosse, non avevo mai visto una linotype, avevo solo sentito i racconti di un amico più grande di me di qualche anno che frequentava la scuola tipografica a Palermo. Era il 1965. A quei tempi la tipografia era ancora quella tradizionale, rimasta praticamente immutata per quasi cento anni! Alla «Scuola Salesiana del Libro» ho preso dimestichezza con i «caratteri mobili» in piombo, con la composizione a mano, con l’impostazione grafica di un biglietto da visita, di un volantino ma anche di un manifesto funebre! I Salesiani prima di darti la possibilità di specializzarti (linotipista o stampatore) ti permettevano di conoscere l’intero ciclo di lavoro della tipografia (la composizione, la stampa e la legatoria). Il secondo anno si cominciava a prendere dimestichezza con la linotype. La linotype era stata inventata nel 1881 e permetteva di comporre una linea di caratteri (matrici) che permettevano la fusione di un’unica riga su una lega a base di piombo. Il linotipista doveva essere esperto nella battitura dei tasti della speciale tastiera, doveva conoscere le regole fondamentali dell’ortografia perchè la sillabazione era manuale! I testi dagli autori arrivavano per lo più manoscritti e spesso era difficile interpretare alcune parole. A pensarci adesso sembra tutto così banale eppure non sono passati tantissimi anni!
I libri erano di genere vario, i più disparati: dai romanzi ai trattati scientifici, alle biografie, alle antologie e spesso capitava che ci si appassionasse all’argomento cercando di seguire il discorso o la trama.
Quando nel 1969 mi sono trasferito a Bologna ho subito trovato un lavoro da linotipista e ho continuato lavorando a leggere dei libri. Un periodo abbiamo lavorato per la casa editrice Il Mulino e spesso le pubblicazioni, anche se ostiche, erano molto interessanti. In una di queste letture ho conosciuto il politologo Giorgio Galli e mi sono appassionato ai suoi scritti. L’ho ritrovato opinionista su «Panorama» e sono stato per molti anni suo fedele lettore. Ritagliavo dalla rivista la pagina con il suo articolo e ancora li conservo! Dovevo essere così coinvolto da parlarne spesso che mia moglie (allora la mia fidanzata) come regalo di San Valentino mi regalò un suo libro.
Continuavo a leggere nel lavoro ma soprattutto nella vita. Mi ero avvicinato alla politica e leggevo quotidiani e riviste! La televisione aveva preso piede già da diversi anni ed era diventata un formidabile strumento di informazioni!
Anche in tipografia era entrata prepotente l’elettronica con la fotocomposizione prima (diatronic, compugraphic, berthold, ecc.) e poi con il computer.
Ho vissuto, con entusiasmo, tutti i passaggi convertendomi di volta in volta alle nuove tecnologie. I testi non arrivavano più manoscritti o dattiloscritti ma gli autori digitavano i testi e ti mandavano i file da impaginare. La linotype era entrata nei libri di storia o faceva bella mostra in qualche museo.
I libri sono sempre più belli e pieni di colori e di foto (per i contenuti non so giudicare!). A me è rimasta intatta l’emozione di vedere un libro stampato!

Alcune pagine del mio libro fotografico “Uno sguardo sul mondo”. Chi fosse interessato può contattarmi

© Testi e foto di Salvatore Lumia – Riproduzione riservata

Viaggio in Nepal: una giornata speciale…

Viaggio in Nepal e visita al Chitwan National Park. Nel programma di viaggio le promesse erano: «attività di birdwatching “a caccia” delle circa 276 specie di uccelli presenti e la visita agli elefanti nei loro habitat per conoscere le abitudini e la vita di questi animali. Escursione in canoa e passeggiata a dorso di elefante per esplorare la giungla e la fauna selvatica, con la speranza di vedere nel loro habitat il rinoceronte cornuto, diversi tipi di cervi, scimmie, cinghiali, bisonti, orsi, leopardi e, se fortunati, la tigre reale del Bengala». In realtà sono cose che si scrivono per attirare i turisti che solo ipoteticamente potrebbero verificarsi. Prima del viaggio, in l’Italia, ho pensato a quanto sarebbe stato emozionante fotografare la “tigre del Bengala” ma anche gli orsi, i leopardi, il rinoceronte cornuto, ecc. Nella realtà la tigre non c’era e non c’erano neanche tutti gli animali promessi. Di avventuroso c’è stato il fatto che l’elefante su cui viaggiavamo si è imbizzarrito e abbiamo corso il rischio di essere disarcionati.
Eppure questa due giorni è stata per me indimenticabile… Una cosa che non aveva avuto l’onore di essere citata nel programma di viaggio è stata una di quelle che, nel mio ricordo, è rimasta più vivida! La visita ad un villaggio all’interno del parco con la possibilità di entrare in contatto con persone umili ma accoglienti. Le loro case erano, per lo più, capanne costruite con paglia e fango, composte quasi sempre da un monolocale con al centro il letto; eppure erano piene di vita e di dignità. I bambini giravano per casa scalzi e facevano colazione attingendo del riso da una ciotola. Le donne facevano i lavori, per lo più fuori di casa. I loro visi consumati dal tempo e dalle intemperie erano belli e pieni di vita. Una donna stava seduta davanti casa con i piedi scalzi e gli occhi perduti ad inseguire i suoi pensieri. Mi ha sorriso dolcemente quando gli ho chiesto se potevo fotografarla ma non si è mossa. Ho maledetto l’ostacolo della lingua, avrei voluto parlare con lei, cercare di capire da che cosa veniva la sua serenità e invece ho scattato alcune foto che, riguardandole, mi danno la possibilità di rifarmi le stesse domande!

© Testi e foto di Salvatore Lumia – Riproduzione riservata

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